Degenerazioni - Memorie di un assassino

DeGenerazione – memorie di un assassino: III° Capitolo – E voi per chi lavorate?

DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova

III

E voi per chi lavorate?

Ore 17:00; il treno, anche questa volta puntuale, entrò in stazione, affollato come la volta precedente. La raffica di parole senza senso che permeavano la stazione mi batteva contro le pareti del cranio, ma ero deciso nonostante tutto a non farle entrare, a lasciarle fuori per rimanere il più possibile concentrato. Guardavo solamente volti su volti. Immobile sulle punte come una ballerina di danza classica, scrutavo la folla alla ricerca del volto dell’ingegnere. Eccolo di nuovo!

Quella volta era vestito in maniera classica: camicia bianca, giacca e cravatta nera. Aveva sempre con sé la stessa elegante valigia di pelle della volta precedente. Mi tenni a una ventina di metri di distanza da lui adeguando di volta in volta il passo alle esigenze di un inseguimento discreto, sempre a debita distanza di sicurezza. Discendemmo il quadrante B21, fino alla fine della strada, svoltammo a est verso il parco e proseguimmo senza comunque uscire dal quadrante B21. Non avevamo percorso che un paio di chilometri dalla stazione che l’ingegnere si fermò davanti ad un palazzo. Suonò il campanello ed entrò. Notai tre uomini. Ebbi subito la sensazione che stavano aspettando me.

C’erano varie soluzioni per uscire da quella situazione, tipo girare i tacchi e salire sul primo autobus in partenza. Ma ero curioso. Se volevano qualcosa da me, forse avrei ottenuto qualcosa da loro. Era una strana combriccola. Uno, in blu jeans, giubbotto di pelle e stivaloni da motociclista, sembrava uscito da un film su una banda di motociclisti. Stava appoggiato all’auto masticando chewing gum con le braccia conserte. Si era fatto crescere le basette in maniera smisurata e per questo nella mia mente gli affibbiai subito l’appellativo “basettoni”. Il secondo, sulla trentina, vestiva un abito marrone di tweed. Il terzo era il più anziano, avrà avuto quarantacinque anni, aveva una giacca di camoscio e portava due vistosi baffi. Fumava una sigaretta e continuava nervosamente a consultare l’orologio. Erano tutti circa della mia stazza. A parte la differenza nel vestire, sembravano l’uno l’immagine dell’altro a diversi stadi della vita. Un po’ come l’immagine dell’evoluzione dalla scimmia all’uomo presente in tutti i libri di scienze. Tutti e tre mentre mi avvicinavo mi seguivano con gli occhi. Avevano già organizzato tutto. Basettoni mi afferrò per il braccio mentre “giacca di tweed” andò a prendere una 850 fiat nera che era parcheggiata più in là. Giacca di camoscio e basettoni mi condussero al posto di guida e salirono dopo di me.

– Andiamo! – disse giacca di camoscio – Hai un appuntamento. –

– Ditemi solo dove andare – dissi.

Giacca di camoscio si allungò in avanti. – Prendi la prima a sinistra e poi segui le indicazioni per la zona industriale… e non fare scherzi, hai una trentotto puntata dietro la testa. Fai il furbo e il tuo cervello finirà a decorare il parabrezza. –

Accesi il motore e partii. Finche rimanevo alla guida della macchina non sarebbe successo niente, giacca di camoscio non avrebbe premuto il grilletto. Ma chi erano quegli uomini? Perché mi portavano via? Non avevano l’aria di essere sbirri e questo era evidente. Probabilmente c’entravano qualcosa con l’ingegnere. Magari erano stati incaricati da qualcuno per tenerlo sott’occhio. Che lo seguivano non vi erano dubbi tant’è che, a dimostrazione di questo, c’era il fatto che erano arrivati fino a me.

– Immagino che non mi darete alcun indizio su come mai per voi è cosi importante passare la serata in mia compagnia – dissi a giacca di camoscio.

– Non siamo noi a doverti dare delle spiegazioni, sei tu che ci devi dire perché sei addosso all’ingegnere – rispose al suo posto basettoni.

– Dì un po’… sei uno sporco investigatore privato vero? Chi ti paga? Ti ha ingaggiato quella vecchia baldracca della moglie dell’ingegnere? – incalzava senza sosta giacca di camoscio.

– E voi per chi lavorate? –

– Bello, siamo noi a dover ricevere delle risposte, non tu a fare domande – rispose seccamente basettoni. Il che, vista la situazione, non faceva una piega. Una cosa però da questo inizio colloquio l’avevo ottenuta: non sapevano in realtà chi ero, sospettavano che dovessi essere una specie di investigatore privato. Quindi provai a indossare i panni dell’investigatore privato.

– Io non rivelo mai l’identità dei clienti per cui lavoro, specialmente a due individui come voi! – Questo pensavo avrebbe risposto un vero investigatore privato in una situazione simile.

– Beh, devo dire che con la lingua sei svelto. Adesso pensa a guidare tanto ci sarà tempo per le risposte che vogliamo e noi conosciamo molti trucchetti per far cantare i tipi come te. –

E guidai. Procedemmo per alcuni chilometri restando in silenzio. Dopo le fabbriche e i magazzini della zona industriale costeggiammo una serie di piccole cave dimesse. Stavamo salendo verso i monti. Ci introducemmo in una cava abbandonata che consisteva di alcuni ettari di bosco che si stava naturalmente rimpossessando di quello che l’uomo gli aveva sottratto; il tutto contornato da versanti di montagna divorata. Era tutto completamente deserto e pareva che l’uomo fosse scomparso da milioni di anni senza lasciare quasi traccia del suo passaggio, all’infuori di tramogge arrugginite e gru, che mi facevano pensare ad enormi futuristici ragni robotizzati. Giacca di camoscio mi ordinò di girare per una strada sterrata che si perdeva tra la boscaglia. Dopo circa mezzo chilometro ci trovammo sulla sinistra un ampio prato, e giacca di pelle mi disse di staccarmi dalla strada e salire sull’erba. Seguii le sue istruzioni. Qualunque mossa avessi tentato sarei stato un facile bersaglio in campo aperto. L’unica speranza era il bosco oltre la strada, ma era lontano più di trecento metri a occhio e croce. Quando me lo ordinarono, fermai la macchina e scendemmo tutti e quattro. Per un lungo momento restammo lì senza parlare, fra l’erba alta e la luce arancione del tramonto. Improvvisamente Giacca di Tweed partì all’assalto con un destro sbilenco. Lo bloccai prontamente con il braccio sinistro e contrattaccai con un destro deciso all’addome. Lui grugnì come un maiale sgozzato e si piegò in due. Basettoni però rimase stordito solo per un momento, poi sorridendo tornò alla carica. – Il tuo momento di gloria l’hai avuto, – disse – adesso tocca a me! –

All’improvviso l’enorme disco rosso infuocato sparì; era lì e un attimo dopo non c’era più. Era stato giacca di camoscio a colpirmi con il calcio della pistola prima che potesse farlo basettoni. Il colpo mi raggiunse in piena nuca e andai giù come un pugile va KO. Quando riaprii gli occhi ero disteso sulla schiena. Dopo qualche minuto compresi che ero sdraiato sul pavimento di una auto, ai piedi del sedile posteriore. Mi meravigliai e per qualche secondo la presi con entusiasmo: ero ancora vivo! Dolorante sì, ma vivo! Poi mi accorsi di avere le mani legate con un pezzo di corda. Fuori era completamente buio. In mia assenza era scesa la notte.

– Ehi, si è svegliato il nostro amico! – disse giacca di camoscio.

– Peccato – commentò Basettoni – ti sei perso quasi tutto il viaggio. Siamo praticamente al capolinea. –

Qualche minuto dopo l’auto rallentò per curvare, e sentii che eravamo passati sulla ghiaia. Ci fermammo. Tutti scesero dalla macchina tranne me. Mi dissero di alzarmi. Feci del mio meglio, ma evidentemente non bastava. Basettoni mi diede un calcio ai reni per darmi una mano. Dopo altri tentativi e qualche altro calcio riuscii finalmente a mettermi in piedi. Malgrado la situazione non mi apparisse rosea, stavo riacquistando fiducia. Ero con loro da almeno due ore e ancora non mi avevano tolto di mezzo. Se avessero avuto istruzione di uccidermi a quel punto sarei stato già cadavere da un pezzo. Sembrava che preferissero lasciarmi vivere, forse solo per sapere chi ero e perché seguivo l’ingegnere e mettermi fuori combattimento, facendomi sputare l’anima in modo da farmi desistere dall’incarico investigativo. Ormai gli avevo fatto intuire che ero un investigatore privato, ma ancora non avevo detto per chi lavoravo; del resto non avevo riflettuto molto su che balla inventarmi. Proseguimmo tutti insieme a piedi per dieci minuti. Giacca di tweed aveva una torcia elettrica per illuminare la strada fra i sassi, e giacca di camoscio mi teneva la pistola dietro la schiena. Arrivammo presso una vecchia baracca che doveva essere l’ex ufficio del caposquadra. Basettoni aprì la porta e disse: – Ecco la tua nuova casa. Nei prossimi giorni imparerai a conoscerla molto bene. –

– Tu non sai che fortuna hai avuto… – disse giacca di camoscio. – sei cosi schifosamente fortunato che mi fai venire il vomito. In una circostanza come questa non c’è storia, saresti già cadavere. –

Prima considerazione: il fatto che giacca di camoscio avesse parlato al plurale (“ti vogliono vivo”) indicava che i mandanti facevano parte di un’ “organizzazione” e l’unica coinvolta in quella vicenda poteva essere solo la potente multinazionale dove lavorava l’ingegnere: la S.I.M.. Seconda considerazione: mi avevano fatto capire che, anche volendolo, non potevano uccidermi, e questo rappresentava un punto a mio favore. Come dare il vantaggio all’avversario in una partita. Quella consapevolezza mi dava quindi la forza di tentare tutto per tutto.

Basettoni non potette rinunciare dal fare un commento. – Ti vogliono vivo sì, ma questo non significa per te che saranno rose e fiori. Ci sono dei modi di tenere uno in vita che sono peggio che ammazzarlo. Prova solo a sgarrare, ci pregherai a mani giunte di ficcarti una pallottola in corpo. –

La mia dimora era una stanza spoglia e polverosa, puzzolente di legno marcio; misurava circa due metri per quattro. Quando il fascio di luce vi passò sopra, vidi un tavolo, alcune sedie e un paio di vecchi libri nastri. Cominciavo a studiare la situazione, tanto non avevo di meglio da fare. Non volevo rassegnarmi all’idea di un soggiorno prolungato. Primo errore: giacca di camoscio e giacca di tweed dissero a Basettoni che andavano a prendere un po’ di roba da mangiare, e sarebbero tornati dopo un’ora. La fortuna cominciava a girare dalla mia parte. Sarei rimasto solo col novellino. Le probabilità di uscire da quella situazione erano aumentate di molto. Dovevo trovare la maniera di affrontarlo senza beccarmi una pallottola in mezzo alla fronte.

Lui era seduto su una delle sedie vicino alla porta, con la torcia puntata sulla mia faccia in una mano, e la pistola puntata sulla mia faccia nell’altra. Io ero seduto per terra, in un angolo, con le mani legate e distoglievo lo sguardo per evitare la luce che mi accecava. Fuori i grilli cantavano alla luna, e di tanto in tanto si sentiva gracchiare una rana. Per cinque o sei minuti restammo in silenzio. Mi venne in mente di provocarlo per farlo innervosire. Dopotutto era un novellino alle prime armi e se messo sotto pressione avrebbe potuto commettere qualche errore e concedermi la possibilità di disarmarlo. Non mi restava che provare. Anche perché era una di quelle situazioni in cui è più facile parlare piuttosto che tacere.

– Ehi, basette a figa di tartaruga! È inutile che mi punti quell’arma addosso. Non avrai mai il fegato di spararmi. Il tuo dovere è tenermi vivo. Se disobbedisci agli ordini, la tua pelle non vale più una cicca. –

– Questo è quello che pensi tu, lingua lunga. Nessuno può ordinarmi quello che devo fare. Se ti scarico questa nella pancia, magari mi danno una medaglia. –

– E allora perché non ci provi figlio di puttana? Ti deve far sentire un padreterno puntare la pistola contro un uomo con le mani legate. –

– Quando vuoi sporco figlio d’un cane di investigatore, dove vuoi. Ti massacro. Prima hai avuto fortuna. –

– E perché non adesso, brufoloso stronzo con le basette a figa di tartaruga. O hai paura che ti faccia cagare sangue un’altra volta? –

Cominciavo a disperare ma senza demordere continuai a insultarlo. Alla fine funzionò. Riuscii a farlo uscire dai gangheri. Fece il secondo errore: appoggiò la torcia sul tavolo in modo da illuminarmi, poi si alzò, infilandosi la pistola nella cintola, e venne verso di me. Si sentiva sicuro perché avevo le mani legate.

– In piedi, bastardo figlio di puttana d’investigatore!- mi gridò con la faccia stravolta. – Ti do una lezione che non te la scordi mai più. –

Mi alzai per fronteggiarlo. Con la luce che gli arrivava da dietro, distinguevo soltanto la sagoma. Prese lo slancio e mi colpì di destro alla mascella con tutte le sue forze. Fu un buon pugno, e per un attimo pensai che mi avesse rotto qualche osso della faccia. Indietreggiai fino a sbattere contro il muro, ma in qualche modo riuscii a restare in equilibrio. Era quello che volevo. Sapevo che se avessi incassato il suo miglior colpo senza cadere lo avrei spaventato. Aveva il sangue agli occhi. In anni di pestaggi probabilmente non aveva incontrato mai nessuno che gli tenesse testa. Il problema dei bulli è proprio questo: passano tanto tempo a prendersela con persone più deboli che quando incontrano un duro che gli tiene testa si spaventano e perdono il controllo. Ripartì alla carica, ma lo fece talmente largo con il secondo pugno che ebbi il tempo di abbassarmi e colpirlo da sotto con le mani legate. Una sorta di pugno raddoppiato. Lo beccai in pieno mento e volò all’indietro sul tavolo, abbattendo la torcia e facendo piombare la stanza nel buio. Corsi verso la porta. Era una notte chiara, illuminata dalla mezzaluna e non c’erano alberi dietro cui nascondersi. Incominciai a correre e, anche se avevo accumulato un po’ di vantaggio, il ragazzo mi stava alle calcagna guadagnando sempre più terreno. Capii che non gli sarei sfuggito. A un tratto piantai i piedi fermandomi di colpo e mi rigirai usando le mie mani legate come un battitore di baseball usa la mazza per colpire la palla. Lo presi in piena corsa, sentii le ossa della sua faccia che si frantumavano. Andò giù a piombo. Ma come un cinghiale ferito si tirò in piedi e ripartì all’attacco. Ormai i miei occhi si erano abituati al buio e vedevo dove ci trovavamo. Schivai il corpo alla carica e tutto finì lì. Era già oltre l’orlo dello scavo, stava cadendo verso il fondo venticinque metri più in basso. Mi occorsero dieci o quindici minuti per calmarmi e riprendere fiato; poi tornai abbastanza lucido per rendermi conto di non potere rimanere lì. Il ritorno degli altri due compari era imminente. Mi allontanai velocemente facilitato dalla luce lunare e raggiunsi la strada.