Degenerazioni - Memorie di un assassino

DeGenerazione – memorie di un assassino: II° Capitolo – L’Ingegnere

DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova

II

L’Ingegnere

  A dispetto della stagione primaverile indossava un lungo cappotto di cammello e camminava strascicando leggermente i piedi. L’espressione del volto sembrava placida e anonima. Non si guardava intorno, non sembrava interessato. Aveva un unico bagaglio, una lussuosa valigia di pelle nera. A quel punto arretrai di alcuni passi collocandomi in modo da poter scattare velocemente a destra o a sinistra, secondo la necessità. Nello stesso tempo volevo rimanere a distanza perché l’ingegnere non si accorgesse di essere pedinato. Quando raggiunse l’uscita della stazione, posò delicatamente la valigia e si fermò.

A quel punto di azione interrotta tirai fuori il mio taccuino e annotai tutti i dettagli successi fino a quel momento (il mio orario d’arrivo, orario d’arrivo del treno, come era vestito l’ingegnere, tempo di percorrenza tra la scesa dal treno e l’arrivo all’uscita della stazione, ecc.). “Quadrante B21, pomeriggio ore 17:21… ecc.”

Presi nota anche dei gesti dell’ingegnere e soprattutto riportai quelle che erano le mie impressioni sino a quel momento. Tracciai, inoltre, l’esatto itinerario delle digressioni dell’ingegnere, curve e soste comprese. Mi resi subito conto che camminare e scrivere allo stesso momento non erano attività naturalmente compatibili. Facevo un sacco di fatica. Era difficile soprattutto scrivere senza tenere gli occhi sulla pagina.

All’improvviso, dopo aver guardato ripetutamente il suo orologio, si alzò e si diresse alla vicina fermata degli autobus. Lo seguii. Sembrava impaziente… quasi ansioso di andare dove doveva andare. I gesti e le movenze del corpo erano quelle di uno che non vuole mancare ad un appuntamento. Salì sull’autobus n. 61/. Lo feci anch’io; ore 17:37. Mi confusi tra studenti, professionisti radical chic che prendono i mezzi pubblici, illudendosi di fare gli antiborghesi; signore della media borghesia impegnate in compere capitalistiche o piuttosto dedite a fare il solito giro dal parrucchiere per spettegolare dei fatti degli altri perché con molte probabilità non hanno una vita propria interessante quanto basta per cosi dire. L’autobus proseguì la sua lenta corsa. Ci stava portando verso la periferia. Arrivò semivuoto al quadrante B23. L’ingegnere scese.

Anch’io scesi ma mi fermai per accendere una sigaretta e tenermi a distanza. L’ingegnere sembrava concentrato solo sulla via che aveva in mente di percorrere. Non sospettò di essere seguito. Prese un grande vialone alberato, che con larghe curve, portava a un altro vialone. Io mi tenni sempre a debita distanza. L’asfalto bagnato dalla pioggia di qualche minuto prima aveva quell’odore che hanno tutti gli asfalti bagnati e l’aria in prossimità della superficie sembrava liquefarsi sotto l’azione dei primi raggi del sole che filtravano dalle nuvole in ritirata. Arrivammo a un campo nomadi.

Il fiume dai ripidi argini pieni d’immondizia abbandonata circondava in un abbraccio quasi materno il campo. La puzza si sentiva ma era tuttavia una puzza organica, che è più “tollerabile” di quella industriale perché è solo cartaccia, bottiglie, scatolame e pannolini sporchi di merda e piscio. Di avanzi di cibo non ce n’erano. Nel fango le roulotte erano parcheggiate senza un criterio ben preciso e sembravano tutte uguali. Ma non erano tutte uguali. E non intendo diverse perché sicuramente ogni storia contenuta nelle viscere lamierate di una roulotte è diversa dalla storia contenuta nelle viscere lamierate di un’altra roulotte. Vedevo mescolanze di stili. Nelle decorazioni vedevo Novecento, Barocco, Liberty… persino Medioevo.

C’è molto da imparare dall’architettura nomade se si pensa alle nostre città tutte disgustosamente uguali e orrende tra loro. A che scopo chiamarle in maniera differente se poi ognuna rappresenta sempre il medesimo incubo di grigio cemento e freddo acciaio?

Sotto l’argine ripido del fiume, che in realtà era una frana d’immondizia, c’erano bagni fatti di pezzi di eternit accatastati, panni a stendere sulle corde tirate da una roulotte all’altra, bambini felici che correvano tra i vasi di fiori, basilico coltivato nei bidoni assieme a piante di pomodoro e peperoncino, tavoli zoppicanti, gatti, tanti gatti probabilmente per tenere lontani i topi e cani e ancora bambini con i capelli imperlati di sudore sulla faccia. Tanti piccoli figli della giungla suburbana. Per qualche minuto restai fermo a guardare una coppia di cani in calore. Il maschio tentava di montare la femmina, ma a ogni approccio lei riusciva a sottrarsi. Probabilmente fra gli animali il desiderio è senz’anima, è un rituale meccanico. Sembrano obbligati a ripetere quella cosa per tutta la vita senza la minima consapevolezza di quello che stanno facendo. Nessuna traccia di gente adulta. Sicuramente erano in città a “buttare i piedi” per rimediare qualche soldo.

L’ingegnere entrò nel campo nomadi come se stesse entrando a casa sua. Appariva a suo agio, entrò disinvolto senza curarsi di nessuno e nessuno del campo si curò di lui. Nemmeno i bambini, che continuarono le loro corse verso chissà cosa, nemmeno gli animali, le roulotte, tutto l’ambiente e l’atmosfera non fece caso al suo passaggio. Eppure lui con i suoi abiti firmati e alla moda non avrebbe dovuto passare inosservato in mezzo a quella miseria fatta di stracci consunti e strappati e sporcizia e piedi scalzi.

Io rimasi fuori. Mi allontanai quel tanto che bastava per riuscire ancora a vedere la figura dell’ingegnere, che si dirigeva verso una roulotte un po’ più appartata rispetto alle altre. Sembrava una roulotte che voleva nascondersi da tutte le sue simili. Fuori c’era una vecchia zingara, con la quale si intrattenne qualche minuto e poi tutti e due entrarono nella roulotte.

Che successe dentro quella roulotte? Non riuscii a vederlo. La prima cosa che mi venne da pensare fu che l’ingegnere stesse contrattando qualche dose di droga. Il campo facilitava il più assoluto anonimato. Oppure, più semplicemente si stava facendo leggere la mano o i tarocchi. Magari quella vecchia zingara era una specie di veggente con la palla di cristallo riflettente l’immagine deformata della realtà circostante. Era strano però che un uomo di scienza si facesse abbindolare con le carte. A questo punto tutto le ipotesi sembravano altrettanto possibili. Solo le lamiere della roulotte potevano saperlo.

Il tempo scorreva lentamente. Dopo circa quaranta minuti l’ingegnere uscì con la stessa andatura di chi esce da casa sua e s’incamminò verso l’uscita del campo nomadi. Nel frattempo si era fatto buio e non si vedevano che poche cose: la distesa irregolare e immensa del prato con in fondo le roulotte con all’interno le luci rese tremolanti da umani movimenti; in alto la mezza luna e sulla terra un unico profondo odore: il puzzo dell’immondizia. Decisi che ne avevo abbastanza. Ripercorsi il viale dell’andata fino alla fermata dell’autobus e tornai al mio appartamento. Da quello che avevo avuto modo di osservare di certo l’ingegnere era un habitué di quel campo nomadi. Si capiva da come si era mosso all’interno e soprattutto dal fatto che nessuno aveva mostrato interesse al suo passaggio. Come se tutti, persone animali e cose comprese, fossero abituati alla sua figura. Ma il mio pensiero tornò inesorabilmente alla roulotte. Cos’era successo in quella roulotte? Dovevo scoprirlo a tutti i costi e l’unico modo per farlo era quello di farci una visitina.

Il giorno dopo ripresi lo stesso autobus e mi recai al campo nomadi. Pensai di vestirmi anch’io in maniera elegante e per l’occasione optai per un abito grigio fumo di londra. Percorsi il largo violone asfaltato che costeggiava il fiume odoroso e arrivai all’ingresso del campo. Stessa scena del giorno precedente. Voglio dire roulotte disseminate in maniera caotica nel fango dove scorrazzavano bambini scalzi sì… ma felici, di una felicità tutta loro però, infantile e semplice di piccole cose grandi; cani pidocchiosi, gatti, donne con gonne lunghe fino alle caviglie che trafficavano con gli stracci appesi ovunque a stendere per asciugarsi. Il tanfo nell’aria era lo stesso tanfo del giorno precedente. Entrai in maniera disinvolta e anch’io ebbi la sensazione di passare inosservato. Come se tra gli abitanti del campo era normale vedere uomini “distinti” a passeggio tra il fango. Nel frattempo, appunto, mi si erano infangate completamente le scarpe e gli orli terminali dei pantaloni. Mi diressi verso la roulotte in questione e come il giorno prima c’era quella vecchia zingara che fumava una sigaretta davanti all’entrata. Mi lanciò uno sguardo come se mi conoscesse da una vita. – Tu sei una faccia nuova signore. Ti manda il Dottor tal dei tali oppure l’Avvocato tal dei tali?

Feci il vago per finire a dire che non mi piaceva rivelare le mie fonti.

– Un altro della Milano bene.

Come zingara veggente non valeva una cicca; con la mia identità aveva toppato alla grande, quindi potevo cominciare a escludere l’ipotesi della lettura delle carte e dell’interrogazione della palla di cristallo come motivo della visita dell’ingegnere.

– Per varcare la soglia ed entrare sono 10.000£ gentile signore.

Estrassi la banconota da dieci. Dopo aver incassato avidamente la vecchia megera mi assicurò che lo spettacolo all’interno valeva molto più della mia banconota da dieci.

Senza indugiare troppo entrai. Dentro la roulotte i tubi delle condotte d’acqua perdevano, le pareti di lamiera trasudavano lacrime artificiali e fra le gocce gli scarafaggi marciavano lentamente come un esercito di gnomi zoppicanti. Su di un lurido divano c’erano tre uomini con catene d’oro sul petto peloso e anelli d’oro alle dita, grossi come testicoli di neonato. Quasi subito si riaprì la porta della roulotte ed entrò la vecchia zingara con una giovane ragazza. Il suo aspetto delicato contrastava con tutto l’ambiente circostante.

– Ecco Yuko! – annunciò la vecchia.

L’aria e le movenze erano quelle di una ragazzina che metteva in pratica le buone maniere che le avevano insegnato, solo che quella non era la situazione per cui era stata preparata, era evidente. I suoi gesti erano gentili e servili. Uno dei tre uomini si alzò e le si mise davanti. Lentamente la ragazza s’inginocchiò con il viso all’altezza della patta dei pantaloni. Vedendo l’immobilità della ragazza che aspettava obbediente e docile come una pecorella, l’uomo cominciò a sbottonarsi i pantaloni. Siccome non riusciva, con una mossa ancor più burbera e sbrigativa, si slacciò la cinta e si tirò giù i pantaloni fino ai polpacci. La ragazza dolcemente ubbidì e, mentre faceva quanto a lei richiesto, le uscirono lacrime che si mescolarono al trucco che aveva intorno agli occhi.

Tornato nella mia stanza mi preparai una cena, che consisteva in due fette di pane con qualche fetta di mortadella e una birra Peroni. Il bilocale che avevo affittato per seguire l’ingegnere era al terzo piano di un vecchio edificio nel quadrante B20, a circa due chilometri dalla stazione, quadrante B21.

L’ingegnere frequentava prevalentemente il quadrante B22 e B23 nei suoi momenti liberi. Solitamente arrivava con il treno delle 17:00 per poi ripartire qualche ora dopo per tornare a casa. Era scritto sul dossier che mi era stato consegnato, materiale che mi sarebbe servito come punto di partenza per le mie indagini. In un primo momento avevo dato poca importanza a questo particolare. Ma riflettendoci, poi, decisi di iniziare proprio da lì. Volevo osservare il soggetto proprio durante i suoi momenti di svago per cercarne di cogliere l’essenza non viziata dagli orpelli mistificatori che si insinuano nelle circostanze lavorative o familiari. Per questo avevo scelto un vecchio edificio nel quadrante B20. Il bilocale consisteva di una stanza che misurava quattro metri per tre; una metratura troppo asfittica per essere affittata da una famigliola ma abbastanza grande per una persona, a patto di non fumare come una ciminiera. Sennò il bilocale sarebbe diventato intollerabile anche per una sola persona. Il soffitto era alto e decorato a rettangoli con particolari in rilievo all’interno; qua e là, in corrispondenza dell’obsoleto impianto idraulico, l’intonaco aveva incominciato a mostrare i primi sintomi di cedimento. Non si poteva dire che il sole spadroneggiasse dalle due finestre con zanzariera bucata come un formaggio Emmental. Come mobili avevo una scrivania di rovere, qualche sedia, un divano nero di finta pelle che all’occorrenza si trasformava in letto ad una piazza e mezzo, un armadio, un vecchio frigorifero, una struttura con due piastre elettriche che fungevano da fornelli e infine una piccola stanzetta due metri per due, che era il bagno. Un bagno estremamente essenziale: lavandino con specchio, cesso e box doccia con il piattello che stava per essere irrimediabilmente colonizzato da macchie di muffa. C’erano due modi di salire e scendere dal palazzo. Si poteva prendere l’ascensore; un arnese decrepito che si muoveva con la stessa velocità di una lumaca zoppa, o le scale. Generalmente prendevo l’ascensore per salire e le scale per scendere… quando non avevo fretta. Se dovevo sbrigarmi prendevo le scale sia per scendere che per salire.

Mi misi alla scrivania con il taccuino in mano rileggendo le pagine che avevo sporcato con la mia calligrafia complessa e irregolare. Molto era difficile da decifrare, specie nelle parti iniziali dove ancora non avevo raggiunto la giusta padronanza della tecnica di “scrittura in movimento”. Dopo aver letto alcune righe, decisi che prima di cominciare a elaborare gli appunti scritti in fase di pedinamento era meglio iniziare a redigere il rapporto finale partendo dalla descrizione fisica dell’ingegnere, da quella che era la sua famiglia, la sua professione e via dicendo. Dal materiale che mi era stato consegnato, sembrava che le vicende del passato dell’ingegnere fossero prive di attinenza con quelle del presente, che avevo personalmente riscontrato:

Figlio primogenito di un ufficiale dell’esercito. Il padre, appartenente a una ricca famiglia del nord Italia, era un personaggio dal carattere forte e autoritario, quasi cattivo. Comunque scomparso nella guerra d’Africa. La madre…

Autori è nato il… ha frequentato le scuole elementari a… e le medie a…; si è iscritto successivamente dopo la maturità scientifica all’Università di… dove si è laureato in ingegneria con il massimo dei voti. Fin dagli esordi si è sempre distinto come uno studente modello particolarmente portato per le materie scientifiche. Si interessò subito di strutture polimeriche plastiche e per questo fu assunto dalla multinazionale S.I.M.

Nel leggere il dossier capii che l’ingegnere viveva il suo lavoro in funzione dell’interesse che nutriva per la materia; non sembrava uno interessato alla carriera, anche se era naturale che l’avesse fatta ugualmente, considerato che aveva sempre portato a termine con successo gli incarichi che gli avevano assegnato. Aveva iniziato anche a fare trasferte all’estero per conto della S.I.M.: America Latina, Cina, Africa, India, ecc. Particolarmente frequenti però erano state le trasferte in Cina.

Ero disorientato. L’ingegnere era un coacervo di contraddizioni. Però pensavo che la chiave di un buon lavoro investigativo doveva partire dall’osservazione ravvicinata dei particolari, anche di quelli apparentemente privi di importanza. Questo doveva essere per me il punto da cui partire; più accurato il rilevamento dei fatti, più positivi sarebbero stati i risultati, mi ripetevo. La premessa di questo modo di operare era che il comportamento umano si possa comprendere, che dietro l’infinita gamma di gesti, movenze, tic e silenzi ci sia una coerenza, un ordine. Ma, dopo aver meditato per ore per afferrare tutti questi effetti di superficie della personalità umana, non mi sentivo più vicino all’ingegnere di quando non mi ci ero messo alle calcagna. Più lo esaminavo sul campo più si allontanava dall’idea che mi ero fatto leggendo il dossier sulla sua persona. Avevo camminato per ore e ore calpestando i suoi stessi passi, vedendo quello che lui vedeva, eppure… niente. Paradossalmente più mi avvicinavo fisicamente alla sua persona e più la sua essenza più intima prendeva le distanze da me. Senza un motivo ben preciso, probabilmente per prendere tempo tra l’azione e il pensiero, aprii una pagina bianca del taccuino e tracciai una piccola mappa della zona in cui l’ingegnere effettuava i suoi movimenti all’infuori del lavoro. Così, tanto per giocare. Ne venne fuori una di quelle figure che si vedono nelle tavole degli psicanalisti. Un’immagine dai contorni irregolari in cui vedevi quello che la tua mente voleva che tu vedessi. Io ci vidi una farfalla per esempio. Comunque, dopo qualche ora passata a redigere il rapporto sulla giornata trascorsa, decisi che si era fatta l’ora di andare a letto e il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi fu quello di regolare la sveglia per l’indomani mattina.

La sveglia suonò puntualmente alle otto. Mi alzai dal divano letto e mi accesi una sigaretta e poi un’altra ancora. Ero solito farmi una doppietta appena sveglio. Poi bevvi un sorso d’acqua. Avvertii immediatamente un leggero senso di giramento di testa. Sarà stata senza dubbio la sorsata d’acqua. Da domani niente acqua, decisi, solo sigarette. Mi guardai le mani e vidi che erano sporche d’inchiostro. In bagno, mentre l’acqua scorreva, decisi che era giunto il momento di radersi. Mi insaponai la faccia, presi una lametta nuova per facilitare la rasatura della barba incolta e cominciai lentamente a sbarbarmi.

Per qualche motivo quella mattina provai fastidio nel guardare la mia faccia mezza insaponata allo specchio, ma era impossibile radersi evitando la prova dell’immagine di se stessi e quindi dovevo in qualche modo sopportarmi. A quel punto si erano fatte le dieci e c’era senz’altro il tempo di andare a fare la colazione al bar prima di andare alla stazione ad attendere l’arrivo dell’ingegnere.

Mentre leggevo il giornale, appresi la notizia della conclusione del rapimento avvenuto due giorni prima.

Un trionfo senza precedenti per le forze dell’ordine che, in una novantina di secondi, con rara maestria, hanno portato a termine un’operazione di altissima scuola. Una grande soddisfazione per lo Stato, che ha riacquistato di colpo, agli occhi del mondo intero, il prestigio perduto durante questi mesi di terrore. Oscar Simonelli è stato liberato e sta bene, ma sarebbe bastata una frazione di secondo, un momento di incertezza da parte dei suoi salvatori e, ora, saremmo qui a scrivere di un uomo morto e a far la cronaca di una carneficina. Quando gli agenti hanno fatto irruzione nell’appartamento in cui era tenuto prigioniero da due giorni, uno dei suoi aguzzini gli ha puntato una pistola alla tempia, munita di silenziatore. Ma non ha fatto in tempo a premere il grilletto. Uno degli agenti gli è piombato addosso abbattendolo con un colpo alla testa. Il covo era situato al primo piano di un anonimo palazzone abitato da famiglie per bene. Una zona medio-alta della città, dove accanto ad altrettante anonime palazzine sono sorti negli ultimi anni condomini ed eleganti villette. All’interno della prigione sociale è stato ritrovato anche il baule in cui era stato rinchiuso Oscar quando era stato sequestrato. Oltre al baule la polizia ha trovato la macchina per scrivere, con la quale sono stati battuti gli originali dei comunicati diffusi durante il sequestro e i cartelloni zeppi di slogan che Oscar avrebbe dovuto tenere sul petto per le fotografie di rito. Bombe a mano, esplosivo, mitra, pistole, e un’ingente documentazione costituivano il resto del corredo del commando. L’operazione, che è stata condotta dai reparti specializzati, era scattata immediatamente. Ha parlato qualche pentito? È troppo presto per dirlo, ma una dichiarazione rilasciata dal questore lo lascia intendere. – Al covo – ha detto il funzionario – siamo risaliti dopo l’arresto di alcuni fiancheggiatori presi qualche giorno fa. Ristretto il cerchio delle indagini in via Terni, i poliziotti, un’ottantina, tutti in borghese, hanno chiuso nottetempo la prigione sociale in un’invisibile ma impenetrabile cortina. Gli agenti scelti incaricati dell’attacco erano dieci. Prima però abbiamo disposto due cinture di sicurezza: la prima con agenti in borghese e armati allo scopo di evitare improvvise fughe dall’appartamento; la seconda, a più largo raggio, con agenti in divisa, per tenere lontana la gente. Alle 11:20 è stato dato il segnale d’attacco. Al piano terra dello stabile in cui ci sono i membri dell’organizzazione c’è un supermercato. È qui che si sono riforniti di generi alimentari per tutti i giorni del sequestro. I poliziotti, una decina, sono entrati nel supermercato, hanno detto a tutti di stare calmi e bloccato le vie di uscita. Contemporaneamente, davanti all’ingresso dello stabile, si è fermato un grosso camion coperto da un telone. Sulle fiancate aveva stampato il nome di una ditta di traslochi. Dal camion sono balzati a terra i dieci uomini della squadra speciale, tutti con il volto coperto da calze di nylon o passamontagna e armati di mitra e pistole. Qualcuno li ha scambiati per rapinatori e ha chiamato il comando. Gli agenti, che anche a operazione ultimata hanno continuato a tenere il volto coperto, per ragioni di sicurezza, ha raggiunto il primo piano dello stabile. Hanno sfondato la porta della prigione sociale”: due stanze, bagno, cucina e soggiorno. Uno dei sequestratori era nel corridoio, ma non ha fatto in tempo a dare l’allarme. È stato immobilizzato e gettato a terra. Oscar Simonelli era nell’ultima stanza dell’appartamento, attigua alla sala d’aspetto di un gabinetto dentistico guardato a vista. Era sotto una tenda canadese montata su di un bancale, incatenato mani e piedi e con tamponi nelle orecchie. Nel corso dell’operazione, condotta con successo e con una tecnica inconsueta, uno dei membri dell’organizzazione si è spezzato un braccio e un altro è stato medicato per un escoriazione alla testa.-