IL RACCONTO DELLA DOMENICA

ALL’OMBRA DELL’ANTICA TORRE

Da oggi, IoWebbo inaugura una nuova rubrica, “Il racconto della domenica”, curata da Anna Maria Scampone, insegnante e scrittrice. Buona lettura!

di Anna Maria Scampone (antologia Giallolatino 2016)

Le voci erano fastidiose. Oppure ero solo che io non le sopportavo più.
La nota lamentosa della vecchia signora ripercorreva una vita. I fatti erano sempre gli stessi. Potevo anticiparne il racconto ormai. Le stesse parole, le stesse pause, i sospiri tra una frase e l’altra, la commiserazione che si condensava nell’intercalare “Povera me!”.
Nemmeno i doppi vetri riuscivano a tener fuori le sue recriminazioni infinite.
A farle da contrappunto, la voce pettegola della vicina. Curiosa, impicciona e maligna, punteggiava il racconto dell’altra, con esclamazioni di condivisione. In realtà, i suoi occhi saettavano in tutte le direzioni, pronti a cogliere qualsiasi fatto in anteprima. Sapeva tutto di tutti e io la odiavo.
Odiavo tutto di quel vicolo rumoroso. Mi ero trasferita nell’entroterra pontino, in cerca di quiete e tranquillità. Le disavventure di una vita scellerata, mi avevano condotta fin là, in quel paese arroccato su una collina di terra rossa, al centro della valle dell’Amaseno. Mi ero innamorata subito di quel luogo. Né troppo piccolo, né troppo grande. Né paese, né città. Il compromesso ideale.
Il cartello “città d’arte” che mi aveva accolto mi aveva fatto ben sperare. Ero assetata di bello. Mi piaceva riempirmene gli occhi. Ero stata accontentata. Il paese aveva superato ogni mia aspettativa. Ma…

Priverno e le sue quindicimila anime ed io ero capitata nel mirino delle lingue più taglienti del paese!
All’inizio mi avevano circondata di premure e, nonostante il freddo distacco con cui accoglievo il loro avvicendarsi curioso, non ero riuscita a far cessare quei tentativi di intrusione. Più mi negavo e più la loro sollecitudine diventava ingombrante. Alla fine mi rinchiusi in casa, lontana da quegli occhi indagatori.
Avevo bisogno di pensare. E di riflettere. Se avevo avuto la minima speranza di nascondermi, il continuo assalto delle due comari, aveva vanificato questo proposito. Dovevo pensare ad un piano B. Ci avevo fatto il callo. La mia vita era una serie infinita di piani B, pensati in fretta e attuati alla meno peggio. Ora però avevo urgenza di disfarmi delle due comari. E senza attirare l’attenzione.

“Ma quella lì ancora dorme?” chiese Lia. A lei apparteneva la voce querula e petulante che Anna odiava. La donna, sfiancata dalle tante fatiche di una vita dedita al lavoro, era ripiegata su se stessa, accartocciata come una vecchia lattina. Amareggiata dalla vita che l’aveva resa vedova in giovanissima età, aveva concentrato le energie nelle due attività in cui eccelleva: il pettegolezzo e la pulizia maniacale. Nel vicolo esercitava queste due arti con maestria, usando la lingua con la stessa abilità con cui maneggiava la ramazza.
Quella mattina, dopo aver spazzato il selciato, aveva cominciato ad estirpare la parietaria che infestava il muro dell’antico palazzo adiacente alla sua casa. Aspettava la vicina, mugugnando tra sé, insensibile alla bellezza imponente della torre, sulla quale il mattino tesseva splendidi arazzi di luce.
Iole l’aveva raggiunta quasi subito. Il rintocco dell’orologio della piazza l’aveva accompagnata mentre, lamentandosi per i dolori che la tormentavano di giorno e di notte, saliva gli scalini che la separavano dall’amica.
“Non le apre proprio mai quelle finestre” aveva commentato.
Quella casa, perennemente chiusa, solleticava a dismisura la loro curiosità. Una curiosità destinata a restare insoddisfatta purtroppo. Questo le indispettiva e alimentava il loro livore. La volta che erano state messe alla porta con fermezza da Anna, si erano sentite toccate sul vivo e ora era una vera e propria questione di principio, conoscere e risolvere il mistero.

Le guardavo mentre parlottavano, talmente accanite e ciarliere da non accorgersi che le osservavo da dietro le persiane. Il loro chiocciare maligno giungeva forte e chiaro alle mie orecchie.
Non era la prima volta che le spiavo. Da quella postazione privilegiata, invisibile ai loro occhi, avevo visto Lia bere fino a stramazzare esanime sul divano. L’indomani aveva lamentato un atroce mal di testa, con voce più piagnucolosa del solito. Avrei voluto svelare il suo segreto e denigrarla davanti a tutti. Invece avevo taciuto, limitandomi a sbuffare quando, ai suoi lamenti, si erano aggiunti quelli di Iole.
Iole, avevo scoperto, viveva in una desolante solitudine, ignorata dai parenti e dai vicini. Occasionalmente qualcuno andava a trovarla, poi spariva per mesi, senza farsi né vedere, né sentire. A parte le sortite mattutine, viveva rintanata in casa, fumando una sigaretta dopo l’altra.
Commiseravo entrambe. Le compativo per l’esistenza grigia che conducevano, per i vizi che nascondevano, per le bugie che raccontavano.

Lia raccolse l’erba che aveva estirpato, spazzò il piazzale borbottando, poi si bloccò con la ramazza a mezz’aria, come a fermare un pensiero che si era fatto strada tra le mille piccole preoccupazioni quotidiane.
“Ma l’hai vista uscire la tipa ieri sera?” chiese.
Iole posò l’innaffiatoio a terra, asciugò le mani al largo grembiule nero e, perplessa, rispose:
“A dire il vero no. L’ho intravista dietro le finestre. A che ora è uscita?”.
“Erano le ventidue e quarantacinque”.
“ Non è possibile, Ti sarai sbagliata”.
Calcò allusivamente la voce su questa ultima parola. Il fatto che bevesse poteva sfuggire agli altri abitanti del vicolo, ma non a lei. Troppe volte aveva sentito, nell’alito dell’amica, i postumi della sbornia.
“Non posso essermi sbagliata. L’orologio del Municipio aveva appena suonato l’ora”.
“Ti dico che era in casa. L’ho vista con i miei occhi. Passeggiava avanti e indietro davanti alla finestra”.
“Sai che ti dico?” replicò piccata Lia “Se tu l’hai vista e io l’ho vista…allora, ci sono due persone in quell’appartamento!”.
Guardarono entrambe verso le finestre chiuse. Restarono qualche minuto con il naso in su, poi ognuna tornò alle proprie faccende.
“Mah” borbottò Lia.
“Mah” rispose Iole.
Sarebbero rimaste per ore con quel tarlo in testa.

Non costituiscono un problema, pensai. Non ancora. Avevo altro per la testa.
Il mio sguardo si posò sull’intonaco che aveva deturpato l’antico palazzo che torreggiava fiero, al di sopra delle case del vicolo. Qualcuno, in tempi non recenti, aveva coperto la vecchia pietra, sostituendovi uno spesso strato di malta. Il tempo aveva scrostato la facciata in vari punti, rivelando i grossi blocchi calcarei che ne costituivano la struttura originaria. Ma il vero problema era l’edera che, essendo attecchita senza che nessuno si preoccupasse di arginarne la crescita, serrava le mura in un abbraccio mortale.
Un po’ come i segreti, pensai. I segreti ti vincolano al silenzio e, alla lunga, ti soffocano.
Volsi lo sguardo verso il letto disfatto. Il disordine nella stanza era tale da far pensare che gli armadi fossero esplosi. Dalle scarpe, ammucchiate in un angolo, ammiccavano calzini spaiati, di lunghezza e fantasia diversi. Una busta zebrata, testimone di una sporadica giornata di shopping, giaceva tra una torre precaria di libri e una valigia aperta. Il comodino, ingombro all’inverosimile, portava su di sé le tracce di numerose colazioni passate. Una grossa tazza rossa aspettava di essere rimossa da qualche giorno. Dalla libreria spuntavano, in una incredibile confusione, libri, fogli, quaderni.
“Alzati” dissi sbrigativa. “Non puoi poltrire tutto il giorno a letto!”

“Hai visto? È uscita anche ieri sera. Sempre alla stessa ora”.
Lia non era in vena di chiacchiere quella mattina. Aveva un cerchio alla testa che la torturava da ore. Era stata una notte infestata da incubi terrificanti. Aveva cercato il coraggio in fondo ad una bottiglia di vino, poi si era attaccata a una mezza bottiglia di grappa, nascosta sotto una pila di lenzuola. Era la sua riserva per le emergenze. Ora faticava a parlare, la lingua impastata dagli eccessi della notte.
Incurante del silenzio dell’amica, Iole proseguì:
“È sgusciata via nell’ombra, come un fantasma!”
Lia la fissò senza parlare, gli occhi sgranati per lo spavento. La sua notte si era popolata di fantasmi, mostri e spettri orripilanti. Al solo pensarci le venivano i brividi. Si segnò ripetutamente sotto lo sguardo perplesso dell’amica.
“Si può sapere cosa ti prende?”
“Niente, niente” si affrettò a rispondere Lia.
“Come niente. Sei bianca come un cencio!”
“Niente ti ho detto!” ripeté burbera.
Raccolse le foglie che aveva ammucchiato all’angolo dello scalino, si voltò e tornò in casa senza aggiungere una parola. Nella testa, l’immagine delle dita ossute che le avevano intimato di tacere. Aveva ancora negli occhi il ghigno feroce con cui quell’essere mostruoso aveva accompagnato il gesto che l’aveva terrorizzata. Un gesto inequivocabile, senza appello. Un gesto che sapeva di morte.

Me l’ero trovata davanti. Quella strega impicciona era salita in punta di piedi, senza che io potessi accorgermene. Aveva trovato la porta socchiusa e aveva tentato di intrufolarsi in casa mia. Furibonda, le avevo intimato di andarsene. Vedevo i suoi occhi saettare in ogni angolo, fissarsi sui particolari, registrare ogni singola cosa. Avevo guardato la mia casa attraverso i suoi occhi rapaci.
Il disordine e la sporcizia avevano invaso ogni angolo dell’appartamento. Un caos che mi perseguitava da sempre. Il disordine era stato il mio ieri, era il mio oggi e, temevo, sarebbe stato anche il mio domani. Vi ero letteralmente immersa. Con la mente, con il cuore e con il corpo. Me ne vergognavo, ma non sapevo come sfuggire all’ incubo che sconvolgeva la mia vita.
Ero una accumulatrice seriale. Avevo scoperto di esserlo nel modo più doloroso e umiliante della mia vita, quando, sfrattata dal mio appartamento, avevo visto l’orrore negli occhi di chi aveva eseguito l’atto giudiziario. Mi avevano guardata con disgusto e, con evidente ribrezzo, si erano inoltrati nelle stanze ingombre di rifiuti e oggetti.
Mai più, avevo giurato a me stessa, mai più permetterò a qualcuno di guardarmi in questo modo. E da quel momento, ero fuggita ogni qualvolta il caos e il disordine avevano preso il sopravvento.
Così, quando la vecchia megera, aveva biascicato con voce impastata dall’alcool che ora conosceva il mio segreto, le avevo intimato di tacere. E poi l’avevo minacciata. Ma non era stato questo a terrorizzarla.

Iole era perplessa. In tanti anni, non era mai capitato che le finestre di Lia fossero ancora chiuse a quell’ora di mattina. L’aveva chiamata a gran voce, poi allarmata, aveva cominciato a suonare alla porta, richiamando l’attenzione dei vicini. Non ricevendo risposte, avevano sfondato la porta. Iole si era precipitata dentro con velocità sorprendente per una che affermava continuamente di non potersi muovere. Il suo urlo di raccapriccio aveva confermato i timori di tutti.
Lia era stata trovata morta, in fondo alla scala che conduceva al piano superiore. Giaceva scomposta in una pozza di sangue. Accanto a lei, i resti di una bottiglia di vino.
I carabinieri archiviarono il tutto come una morte accidentale. Per giorni se ne parlò e poi fu come se Lia non fosse mai esistita.

Io però lo sapevo cosa era successo. Ma lo tenevo per me.
Iole, rimasta inesorabilmente sola, se ne stava sempre più rintanata in casa propria. Ne usciva solo per fare la spesa, incurante della parietaria che si era riappropriata del muro da cui la tenacia di Lia l’aveva sradicata. La spiavo e lei spiava me. Me ne accorsi una sera. Uscivo sempre alla solita ora e facevo sempre il solito giro. La piazza con la sua cattedrale, il palazzo comunale e la fontana dei Delfini, la via Consolare e la Circonvallazione. Ogni sera lo stesso tragitto, approfittando dei coni d’ombra creati dai lampioni spenti per nascondermi agli occhi degli altri.
Girandomi verso la sua finestra, avevo scorto la sua ombra. Non era riuscita a ritrarsi in tempo. Per un istante i nostri sguardi si erano incrociati. Solo un attimo, ma sufficiente per leggere nei suoi occhi la paura.
Lei sa, pensai, lei sa!

Quando, due settimane dopo, trovarono Iole semicarbonizzata, la gente tornò a mormorare. L’anziana donna era stata trovata nel suo letto, con quel che restava della coperta tirata fin sugli occhi. Quando il coroner le aveva scoperto il viso, era arretrato sconvolto. Quegli occhi, iniettati di sangue, erano sbarrati per il terrore. Così la sua bocca, irrigidita in una smorfia atroce. Cosa poteva mai averla spaventata così tanto? Si fecero mille supposizioni, prima che la morte fosse archiviata come frutto di un incidente. Ma io sapevo.

Preparai la valigia, buttandovi dentro alla rinfusa gli indumenti. Avevo fretta di andarmene.
“Dobbiamo partire, dai non stare lì a guardarmi!”
Mi girai verso Luca. Mi guardava con sguardo assente, intontito dai tranquillanti che gli avevo dato.
“Sei stato un ometto cattivo” lo rimproverai.
Cominciò a piangere, in quel modo silente che mi feriva nel profondo. Gli accarezzai la testa. Si calmò immediatamente. Mi circondò i fianchi con le braccia ossute, poggiò il viso glabro sul mio ventre, annusandomi come farebbe un cucciolo con la sua mamma.
Gli volevo bene. Proprio per questo lo nascondevo. Non sopportavo gli sguardi commiserevoli degli altri. Soprattutto, non sopportavo che distogliessero gli occhi inorriditi. Nonostante l’aspetto sgraziato, le mani sproporzionate e ossute, la mancanza di capelli e la fissità dello sguardo, nulla mi sembrava più bello di questa mia creatura. Fragile e, nello stesso tempo, terribilmente forte e risoluto.
Lo avevo protetto per una vita. E lui aveva protetto me.
Era per lui, e solo per lui, che ancora io vivevo.
Aveva aspettato che io uscissi per la mia passeggiata serale e poi aveva agito. Si era intrufolato nella casa di Lia con molta facilità. Voleva solo spaventarla, povero cucciolotto mio. Così avrebbe dovuto essere, ma la vecchia gli aveva gridato:
“Vattene via brutto mostro. Non mi fai paura!”
L’aveva afferrata per un braccio, ma lei si era ritratta al tocco freddo delle sue dita e aveva tentato di fuggire. Era inciampata nelle sue stesse ciabatte ed era atterrata, in maniera scomposta, ai piedi della lunga scalinata. Avevo trovato Luca seduto vicino a lei. Piagnucolava, dondolandosi sui talloni. L’avevo rassicurato e, prima di portarlo via, avevo cosparso i vestiti e i capelli di Lia di quel pessimo vino che amava tanto.

Tutta altra cosa era stata la vicenda di Iole. Era stata così impudente da venirmi a minacciare fin sulla porta di casa, dopo che l’avevo scoperta a spiarmi. Ne era nato un alterco violento. Quando mi aveva spintonata facendomi cadere all’indietro, Luca l’aveva aggredita e prima che potessi intervenire l’aveva soffocata con un cuscino. Non era sua intenzione ucciderla però. Mi stava difendendo.
Così, a notte fonda, l’avevo portata a casa sua. Il vicolo era immerso nel buio e ne avevo approfittato. L’avevo deposta nel suo letto e avevo acceso una sigaretta. Avevo lasciato che si consumasse lentamente, poi l’avevo buttata tra le lenzuola di cotone. Il fuoco si era propagato con velocità, incendiando tendaggi, tappeti e libri.
Non avrei versato una lacrima per quelle due. Avevano avuto quello che si meritavano.
Quando si soffre come soffro io da una vita, si diventa freddi e insensibili, indifferenti ai dispiaceri, alle angosce e alla morte altrui.

Diedi un ultimo sguardo all’appartamento devastato che lasciavo. Luca era seduto su un cumulo di vestiti sporchi, intento ad osservare con interesse un esercito di formiche schierato sul pavimento sudicio. Avrei dovuto cambiare identità e paese per l’ennesima volta. Sospirai.
Stavo diventando decisamente troppo vecchia per queste continue fughe. E un po’mi dispiaceva lasciare Priverno e tutto ciò che avevo imparato ad amare di questo paese. Ma dovevo farlo.
Per me e per quel mio disgraziatissimo figlio e la sua testolina vuota.
Forse un giorno, pensai, forse un giorno.
Mi inoltrai nell’oscurità, fedele alleata dei miei continui spostamenti.
Luca trotterellava dietro di me, inconsapevole compagno della mia disperazione.