IL RACCONTO DELLA DOMENICA

ERIKA E IL PALLONCINO ROSSO

di Anna Maria Scampone

Ci sono giornate nate per farti sentire bene.  A questo pensava Marisa mentre guardava Erika trotterellare verso un palloncino rosso.

«Mio, mio!» gridava la bambina, cercando di reggersi sulle gambotte piene.

La donna socchiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare dai raggi caldi del sole. Mi è sempre piaciuto il mormorio del vento tra le foglie. È la colonna sonora ideale per un pomeriggio perfetto.

Tra le ciglia ebbe la visione della bambina che sgambettava tra l’erba. Fu come un flash, una specie di dejà vu che si impresse nelle sue pupille, le attraversò la mente e fece battere il cuore più in fretta. Il palloncino era a pochi passi dalla piccola, ma l’andatura ancora incerta, rendeva faticoso afferrarlo. Ogni volta che stava per agguantarlo, il palloncino si spostava di qualche metro, costringendola a rincorrerlo di nuovo.

Marisa sorrise divertita. All’improvviso, però, il sole parve spegnersi, i colori dissolversi, i suoni attutirsi. Il mondo intorno a Marisa divenne sfocato e a lei sembrò di cadere in un vortice senza fine.

«Erika, Erika… avete visto una bambina bionda con un cappottino blu?»

L’angoscia di Marisa cresceva di minuto in minuto. Cominciò a correre come una forsennata, guardando tra i cespugli e dietro gli alberi.

Come è potuto succedere? Non l’ho persa di vista un attimo.

«Aiuto, qualcuno mi aiuti!»

La gente cominciò a radunarsi, allarmata dalle grida sempre più isteriche di Marisa.

«Signora, si calmi. Adesso l’aiutiamo a cercare la bambina.»

«Non può essersi allontanata troppo.»

«Me l’hanno rapita» gridò Marisa, ormai fuori di sé.

«Ma cosa dice signora. Vedrà che la troveremo a cogliere fiori o a giocare.»

«Sì, sì… rincorreva un palloncino. Il vento deve averlo fatto volare e lei lo ha seguito. Deve essere andata così» si rincuorò Marisa. Continuò a ripeterlo per tutto il tempo, tra le lacrime, come un mantra.

«Signora, abbiamo chiamato la polizia.»

Non colse gli sguardi di commiserazione, né i bisbigli di chi le stava intorno. Era disconnessa, lontana dal mondo circostante, isolata nella nebbia del suo disorientamento.

«Ma non c’era nessuna bambina.»

«Infatti, mi ricordo della signora perché si comportava in modo strano.»

«Certa gente, andrebbe rinchiusa.»

«Poverina, mi fa pena. Guarda che occhi ha!»

Fu condotta alla centrale. Un’agente era riuscita a convincerla che sarebbe stata più utile là, piuttosto che consumarsi d’angoscia in quel parco. In attesa del marito, era stata affidata alle cure di un’assistente sociale.

«Signora, mi dica cosa è successo. Si sforzi di ricordare ogni particolare, anche quello più insignificante.»

Marisa chiuse gli occhi, cercò di ricostruire i fatti, ma la sua mente non voleva saperne di disporli in ordine.

«Non so da dove iniziare…»

«Cominci dall’inizio, senza fretta.»

«È tutto così confuso e nebuloso.»

«Si tranquillizzi, siamo qui per aiutarla.»

«Ho approfittato della bella giornata per andare al parco con Erika» disse Marisa con voce esitante. Inseguiva i suoi pensieri, ma le sembravano un groviglio inafferrabile. Le immagini del palloncino rosso che volava nell’erba si sovrapponevano a quelle della macchia blu di un cappottino. Senza preavviso arrivò la crisi. Restò senza fiato, colpita da un dolore viscerale lancinante. Percepì per un istante l’angoscia della perdita, ma si affrettò a cancellarla, ritornando alla sua lucida follia.

«Ci siamo sistemate sotto un albero, ma sa come sono i bambini, non li tieni seduti a lungo.  Erika, da quando ha mosso i primi passi, non si ferma mai. È curiosa, vivace, piena di energia.»

Marisa restò sospesa per un lungo istante, lo sguardo perso nel vuoto, infine si stropicciò gli occhi stancamente e proseguì: «Ho guardato Erika tutto il tempo. Rincorreva un palloncino. Era felice.»

Fu scossa dai singhiozzi. L’assistente sociale la lasciò sfogare, limitandosi a passarle dei fazzoletti.

«Dopo, cosa è successo?»

Marisa corrugò la fronte, sforzandosi di visualizzare le immagini di quel pomeriggio. Aveva le pupille dilatate, lo sguardo smarrito e tormentava un lembo della giacca, con mani tremanti.

«Niente. Rideva e io ridevo con lei. Poi… aspetti, sì… ho ricevuto una telefonata. Un’amica che aveva voglia di chiacchierare. Non la finiva più.»

Parlò in fretta, evitando di guardarla.

«A un certo punto, ho frugato nella borsa per cercare la mia agenda. Ho impiegato qualche minuto perché non la trovavo. Quando ho alzato lo sguardo, Erika non c’era più.»

«Va bene, signora. Ora si calmi.»

«Come faccio a calmarmi. Mentre sono qui, mia figlia è in giro chissà dove e chissà con chi. Deve essere spaventata a morte, povera piccola.»

«Non si preoccupi, la stanno cercando» mentì l’assistente sociale. «Abbiamo chiamato suo marito. Sta arrivando.»

«Filippo è un uomo impegnato. È fuori città per lavoro e tornerà per fine settimana.»

La donna aveva riacquistato la sua compostezza esteriore. Guardava fuori dalla finestra, lo sguardo fisso, persa dietro a chissà quali pensieri.

Quando Filippo arrivò alla centrale, Marisa dormiva in una stanza attigua all’ufficio del commissario. Le avevano somministrato un calmante ed era crollata.

«Mi spiace per l’accaduto» disse l’uomo. «Negli ultimi tempi, mia moglie non sta bene. Soffre di una grave crisi depressiva reattiva. Sei mesi fa, ha subito un aborto spontaneo. Non era il primo purtroppo, ma questa volta speravamo che andasse bene. I medici ci avevano rassicurato e tutto andava per il meglio. Marisa era al settimo cielo ed eravamo pronti ad accogliere la nostra piccola Erika. Purtroppo sono sorte delle complicazioni e abbiamo perso la bambina. Mancava così poco…  È stato un trauma enorme, un dolore insopportabile per lei e anche per me.»

L’uomo nascose il viso tra le mani e sospirò.

«Non esistono parole che possano descrivere la sofferenza di Marisa per la perdita di Erika. Il dolore ha accompagnato ogni momento della sua giornata, senza offrirle una piccola tregua, uno spiraglio.»

Dopo un lungo silenzio, Filippo riprese: «Marisa aveva già dato segni di fragilità emotiva in passato. Dall’aborto la situazione è precipitata. Continua a ripensare a quella sera e alla corsa in ospedale, si sveglia di notte in preda agli incubi o non dorme affatto per giorni interi. È in cura da uno psicoterapeuta, prende dei medicinali e seguiamo una terapia per elaborare la perdita della bambina. Purtroppo, però, invece di unirci, questo lutto ci ha allontanati, confinandoci in silenzi impenetrabili come muri.

Il commissario assentì con un cenno della testa. Aveva un groppo in gola che gli impediva di parlare. C’era nell’uomo, seduto davanti a lui, una tale afflizione da averlo coinvolto emotivamente. Cercò di riprendere il controllo: «La riporti a casa e le stia vicino. Sua moglie ha bisogno della sua presenza e della sua comprensione, ma soprattutto, del suo amore.»

«La ringrazio e mi scuso per il fastidio.»

«Contatti il suo psicoterapeuta e chieda un controllo. Non bisogna sottovalutare questo episodio dissociativo. È una deriva pericolosa che va affrontata in maniera tempestiva.»

Li guardò allontanarsi. La donna, ancora intontita dal calmante, si appoggiò al marito. Questi le circondò le spalle e la sorresse fino all’uscita. Il commissario li guardò salire in macchina e allontanarsi con il loro carico di dolore. Non si erano detti una parola.

Che Dio abbia pietà di loro e allievi la loro sofferenza, pensò l’ufficiale.

Guardò il cielo plumbeo sopra di lui. Anche il cielo aveva voglia di piangere.