IL CAMEO, ARTE E TRADIZIONE

SORA – IL PERDUTO MONASTERO DI SANTA CHIARA PRESSO LA VILLA COMUNALE

di Stefano Di Palma

La prima menzione di questo complesso monastico risale al 1260. La chiesa ed il monastero di Santa Chiara, dipendenza vescovile, sorgevano sul sito odiernamente occupato dalla Villa Comunale della città, oggi conosciuto appunto come “Parco Santa Chiara”. A tal riguardo, si ricorda specialmente il tratto che conduce alla cappella dell’Immacolata ancora esistente nell’area che un tempo costituiva un viale del giardino delle monache (cfr F. Della S. Famiglia, Presenza e testimonianza degli Ordini e Congregazioni Religiose a Sora, 1974).

Notizia certa è che tra i secoli XV e XVI, nel cenobio sorano, si trovavano le monache cistercensi, seguaci della Regola di San Benedetto, che vi rimasero fino al 1915, anno in cui il monastero fu completamente distrutto dal terremoto. Sappiamo che il monastero era una costruzione imponente disposto su più piani. Al piano terra, c’erano quaranta stanze (alcune utilizzate come parlatorio con sale annesse), la portineria, il refettorio, la cucina e la dispensa; nel piano superiore, c’era il dormitorio delle coriste, delle converse e delle educande, la cappella interna e la farmacia. Nel cortile del monastero, si trovavano il pozzo, la cantina, il pigiatoio, il pollaio e l’orto. Infine, della chiesa, sappiamo che era costruita ad una sola navata, era munita di cappelle ed era dotata di un sepolcreto per le monache; le funzioni venivano officiate dai canonici della Cattedrale di Sora.

Particolarmente interessante è la segnalazione di alcune norme e della disciplina usate in questo contesto. Nonostante l’ampiezza del monastero, la norma prescriveva la presenza di un numero fisso di monache: quelle nate a Sora non potevano essere più di trenta, mentre nessun limite era fissato per le monache nate fuori dalla città. L’età minima richiesta per pronunciare i voti era di ventuno anni, la massima di venticinque.

L’aspirante doveva versare alla comunità una dote in denaro riconosciuta come necessaria fonte di sostentamento: l’assegno dotale costituiva una delle fonti principali di reddito per il convento, nonché un mezzo di selezione delle aspiranti. Era, infatti, alla portata solamente di famiglie ragguardevoli o benestanti provenienti maggiormente da Alvito e da San Donato Val Comino e, nel caso di vocazioni sorane, dai ceppi familiari dei Tuzi, dei Lauri, dei Marsella, degli Annoni, dei Mancinelli e dei Tronconi. Anche una nipote del cardinale Cesare Baronio fu una monaca del Monastero di Santa Chiara, come c’informa un codicillo del testamento del 1606 che la delinea quale erede di alcuni dipinti devozionali lasciati dallo zio.

Ovviamente, oltre l’alto lignaggio una delle condizioni necessarie, per l’ingresso in convento, era la sincerità della vocazione, che veniva verificata per gradi: sei mesi di probazione, l’anno di noviziato – che prevedeva la vestizione, il taglio dei capelli e le prove per saggiare le virtù e la vocazione della candidata – e la conclusiva cerimonia di Professione di Fede, celebrata a fine percorso e nella quale ogni monaca veniva accompagnata da una sorta di madrina, ovvero una ricca e nobile matrona. Molte vocazioni provenivano dall’Educandato, ovvero quello struttura ricettiva presente nel monastero che accoglieva le fanciulle sotto la cura di una maestra e volto all’istruzione dell’arte del ricamo, della cucina e della pietà cristiana.

Particolarmente tra i secoli XVII e XVIII,  il Monastero di Santa Chiara vantava una certa prosperità economica disponendo di un cospicuo patrimonio costituito da diverse proprietà dislocate tra Sora ed i paesi limitrofi. Un potente fattore di incremento dello sviluppo economico e patrimoniale del cenobio sorano  proveniva dai contratti di censo: si trattava di elargizioni di mutui a privati che si rivolgevano alle suore per ricevere in prestito (con un interesse  che variava intorno al 10%) del denaro, al fine di avviare colture o di acquistare beni immobili. L’interesse doveva essere corrisposto annualmente fino alla restituzione dell’intero capitale: se non si riusciva a pagare le rate, le monache espropriavano l’immobile ipotecato (cfr. G. Coppola, L’Archivio del Monastero di Santa Chiara di Sora, Inventario (1421-1901), 2006).