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Trasporti pubblici, quale futuro?

Di Giuseppe Filippi

Il tema della mobilità e dei trasporti pubblici ha assunto negli ultimi anni una rilevanza sempre più importante.

Gli studi elaborati dalla Commissione europea confermano questa tendenza. D’altra parte è estremamente facile ad ogni cittadino verificare personalmente l’impatto che assumono i trasporti, il traffico e la mobilità più in generale sulla vita quotidiana di ognuno. La Commissione europea stima che nei prossimi 10 anni avremo un incremento della richiesta di mobilità collettiva pari al 25%.

Le nostre città, le strade statali e provinciali, i treni, le metropolitane e gli autobus nei momenti di punta degli spostamenti dei cittadini, sono quasi sempre sovraffollati rispetto a degli standard di comune accettazione, di decorosa sufficienza e vivibilità.

Per dare risposte concrete a tali esigenze occorrono ingenti risorse da investire che allo stato attuale non ci sono ed anzi sono già insufficienti per garantire le attuali quantità di servizio da erogare. 

Occorrono risorse per investire in infrastrutture: metropolitane, reti ferroviarie, tram, filobus, autobus alimentati con combustibili meno inquinanti del gasolio attualmente utilizzato affinché si possa avviare un efficace programma di tutela dell’aria che respiriamo, soprattutto nelle grandi e medie città.

Occorre, prima di investire in infrastrutture, chiarire quale modello di mobilità si vuole. Occorre aggiornare il Piano Generale dei Trasporti elaborato dal Governo di centrosinistra nel 2000.

Occorre definire il Piano Regionale dei Trasporti visto che la giunta Storace in 5 anni avevano stilato soltanto delle linee guida. 

I criteri di gestione delle imprese di trasporto pubblico (compresa evidentemente l’Alitalia) hanno sempre provocato un dibattito infuocato sulla loro antieconomicità in quanto gestite con criteri clientelari, assistenzialistici e sottoposte all’eccessiva invadenza dei partiti e dei sindacati. Questo ha determinato negli anni delle perdite paurose nei bilanci.

Di fronte a tale situazione economica; all’opinione pubblica ed ai cittadini che non vogliono più, giustamente, continuare a pagare sprechi e costi elevati per avere in cambio, talvolta, servizi non sempre soddisfacenti o per mantenere rendite di posizione e privilegi a chi è inserito alle dipendenze, o come fornitore, di queste aziende, l’unica risposta che è venuta in questi anni è stata quella di mettere a gara i servizi. La cosa per la verità è avvenuta in pochi comuni di grande dimensione e in qualche provincia ed ha riguardato i servizi di trasporto urbano, interurbano e qualche tratta di ferrovia in concessione.

Questa soluzione, che aprirebbe di fatto il mercato alle imprese private, apparentemente sembra rispondere in modo soddisfacente ad un problema: quello di ridurre i costi complessivi dei servizi erogati dalle aziende del TPL. Ciò dovrebbe come conseguenza generare risparmi per gli enti locali, che pagano, attraverso i contratti di servizio, le aziende delle quali sono anche proprietari, e indirettamente dovrebbe anche avvantaggiare i cittadini che potrebbero pagare meno tasse.

Questo sarebbe possibile in quanto oggi le società private che partecipano alle gare offrono il servizio con una riduzione, rispetto ai costi attualmente sostenuti dalle amministrazioni pubbliche, compresa tra il 20% e il 35%.

Ciò è possibile per tutta una serie di ragioni e tra queste le più significative sono:

  • La non applicazione del contratto di lavoro degli autoferrotranvieri del settore pubblico ma quello sottoscritto con le aziende private , aderenti in larga misura alla Confindustria , che è meno oneroso;
  • Maggiore efficienza nell’uso delle risorse umane e degli automezzi;
  • Nessun vincolo di tipo sociale per quanto riguarda i livelli occupazionali;
  • Scarsissima attività di pianificazione territoriale e della mobilità, di ricerca, di tutela dell’ambiente e della sicurezza dei luoghi di lavoro e dei mezzi di trasporto. Dunque una soluzione a prima vista, seppure con forti criticità, percorribile e utile ai cittadini.

Troppi sono però gli interrogativi che resterebbero aperti, ad esempio:

  1. alle gare potranno essere ammesse aziende di altri paesi, come Francia e Germania, ove di fatto il mercato è ancora ampiamente precluso agli stranieri?
  2. quante sono le aziende di trasporto private che per dimensione, competenze e storia sarebbero in grado di garantire la gestione di aziende complesse e di grande dimensione come quelle laziali?
  3. a gara dovrebbero essere messe le intere reti urbane e regionali o singoli lotti?
  4. le province del Lazio che faranno? Si riconosceranno negli affidamenti Regionali, seppure effettuati con gara, oppure vorranno avviare la formazione e la gestione diretta dei bacini?
  5. i privati che dovessero subentrare garantirebbero il servizio in modo capillare e continuo così come fanno oggi le aziende pubbliche, senza emarginare alcuna fascia di cittadini ovunque essi si trovino?

Occorre, non da ultimo, tenere a mente che tipo di sistema di imprese si vuole a livello paese, sapendo che nel confronto con gli altri paesi dell’Unione Europea, le nostre imprese di trasporto pubblico e privato sono quasi sempre dei “nani in mezzo a dei giganti”. Per avere un’idea basta pensare alla società inglese Arriva, alla RATP e alla Transdev francesi, che hanno il doppio ed il triplo di dipendenti delle aziende italiane più grandi, ed operano sia nei loro paesi che in altri, anche fuori dall’UE.

E dunque, se questi sono i soggetti che possono competere in un mercato aperto, occorre riflettere attentamente su cosa si vuole fare a livello normativo italiano, tenendo conto fra l’altro dei vincoli che ci pone la normativa europea.

Occorre riflettere attentamente su due questioni:

  1. Gare;
  2. Liberalizzazione del mercato.

Procedere alle gare per l’affidamento del servizio non significa necessariamente che saranno vinte dalle aziende private in quanto le gare, a seconda di come verranno strutturate, potrebbero essere vinte anche da aziende pubbliche o controllate da soggetti pubblici.

Né tantomeno fare gare significa liberalizzare il mercato, poiché ad un gestore monopolista pubblico si sostituirebbe con le gare un gestore monopolista privato, o ancor meglio e verosimilmente, si creerebbero degli oligopoli in mano a pochi grandi privati o soggetti pubblici.

Le esperienze che abbiamo in Italia in materia di monopoli, o di duopoli o di oligopoli, in altri settori pubblici o a valenza pubblica, come quello della televisione, ci dovrebbero far riflettere: non hanno certo garantito efficienza o miglioramento della qualità nei servizi erogati. Anzi, hanno determinato una grave distorsione del mercato e delle risorse disponibili per tutte le aziende dell’informazione e della comunicazione in generale, concentrando la pubblicità e i relativi introiti nelle mani di Rai e Mediaset , penalizzando così la carta stampata e le tv minori, con grave pregiudizio per la concorrenza del settore e per la libertà d’informazione, che è il bene più importante per i cittadini.

Sostituire dunque un monopolista con un altro monopolista non produce assolutamente né concorrenza né mercato: si sostituisce tutto al più “un soggetto protetto” con “un altro soggetto protetto”, ma pur sempre di protezionismo si tratterebbe, con la particolarità che a beneficiarne sarebbe una sola impresa e non il sistema o il mercato.

D’altra parte si sostiene: visto che le amministrazioni locali, e dunque la politica, non sono state capaci di autoriformarsi “motu proprio” , adottando comportamenti virtuosi, le gare diventerebbero inevitabili,……. un toccasana.

Ma viene da chiedersi: perché dovrebbero diventarlo, miracolosamente, in un solo colpo? Anche ai tempi di “tangentopoli” venivano bandite gare per soddisfare le esigenze della pubblica amministrazione (per le opere pubbliche, i servizi, ecc…), tuttavia sappiamo bene che i prezzi che venivano praticati erano in alcuni casi il doppio di quelli che vennero praticati successivamente alle indagini della magistratura.

Dunque le gare di per se non garantiscono sempre il prezzo più basso per il committente, soprattutto quando gli offerenti sono pochi e si coalizzano in dei cartelli.

La vera “autoriforma” che la politica può produrre non sono le gare, ma la “trasparenza”, “l’informazione” e la “presa di coscienza”, da parte dei cittadini-utenti, di quelli che sono “i costi dell’inefficienza” attraverso il confronto con altre realtà, constatandoli da soli,…… con le proprie tasche. Solo così vi potrà essere un “controllo vero sui costi”, facilmente valutabile dalla pubblica opinione che è l’unica che più di ogni altra può fungere da “garante del consumatore”.

Un’autoriforma di questo tipo potrebbe costituire un buon banco di prova per i “partiti riformisti” che sono al governo.

A ciò va aggiunta un’ulteriore considerazione: il controllo sull’operato degli erogatori dei servizi dovrebbe essere effettuato dalle costituende Autority e dunque non dal mercato, dagli utenti consumatori, come avverrebbe comunemente in una condizione di libera concorrenza, di libero mercato. Anche questo, com’è di tutta evidenza, è una forte discrasia rispetto ad un modello che vuole liberalizzare.

D’altra parte l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico e di tutti gli altri servizi pubblici in generale, tramite gare, non risolverebbe un altro problema che pure è essenziale: quello della qualificazione dell’impresa nel libero mercato.

Non c’è nel nostro Codice Civile la definizione di impresa, ma essa è facilmente desumibile da quella di imprenditore, infatti l’art. 2082 recita: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi“.

Da ciò ne deriva che “l’organizzazione dell’impresa” funge da contraltare al fatto che sull’imprenditore ricade il “rischio” ovvero il rischio del risultato economico dell’attività intrapresa. E dunque, in ragione di ciò l’imprenditore ha il potere di organizzare come meglio crede i fattori produttivi che concorrono all’impresa operando le scelte relative alla conduzione della stessa: cosa produrre (o scambiare), come, dove, quando e con quali mezzi.

L’impresa e l’imprenditore trovano la loro ragion d’essere nel mercato, nella competizione con altre imprese, nella libertà di offrire prodotti e servizi, nel regolare al meglio la propria organizzazione, definendo e modificando secondo le convenienze i mercati di riferimento, attivando politiche di prezzo e promozionali a seconda delle fasi di mercato, secondo la domanda e l’offerta del proprio settore, in funzione di quanto fanno i concorrenti, agendo così in totale autonomia secondo i propri obiettivi di profitto.

Di tutto ciò è realisticamente ipotizzabile che se ne potrà vedere qualcosa dopo che verrà affidato il servizio con una gara ad un unico soggetto privato?

Un soggetto che non avrà alcuna autonomia sul tipo di servizio da rendere in quanto la rete ed il piano di esercizio vengono fissati sostanzialmente dall’organo regolatore che può essere la regione o il comune, senza autonomia sulle modalità con cui lo dovrà svolgere, senza autonomia sui prezzi che dovrà praticare che sono sostanzialmente amministrati e rigidi nel tempo; senza autonomia sulle strutture che dovrà utilizzare, senza autonomia sul personale che dovrà utilizzare, ma soprattutto sarà un’impresa legata sostanzialmente ad un solo committente attraverso il contratto di servizio e dunque con una dipendenza totale anche sul piano finanziario.

Inoltre, un’impresa e un imprenditore che non devono investire nulla o quasi e che si limitano prevalentemente alla sola gestione ed organizzazione della componente del lavoro, assumono piuttosto le vesti di un “caporale” che non quelle di un imprenditore.

Come è di tutta evidenza, siamo di fronte ad una situazione nella quale parlare di imprese e di imprenditorialità è un eufemismo poiché, in assenza di mercato e dei rischi e delle opportunità che da questo derivano, in assenza di competizione vera fra operatori, che sono il sale dell’intraprendere, non possiamo parlare propriamente di apertura al mercato, di liberalizzazione.

Del resto neanche il secondo paragrafo dell’articolo 86 del Trattato della Comunità Europea aiuta particolarmente nel dare una definizione delle imprese (pubbliche) di gestione dei servizi di interesse economico generale che sia comune a tutti i paesi dell’Unione. Ciò a riprova del fatto che la definizione e codificazione dei vari tipi di impresa è arduo, anche all’interno del solo comparto di quelle pubbliche, figuriamoci perciò le implicazioni che si avrebbero nella determinazione della natura dei soggetti privati che svolgono servizi pubblici.

Il tema più generale resta però quello della liberalizzazione del mercato dei servizi pubblici; esso è centrale e decisivo se si vuole parlare di privatizzazioni e di concorrenza.

E’ questo certamente un argomento appassionante e, se vogliamo, anche urgente per questo paese, tradizionalmente restio ai cambiamenti, abituato da sempre ad una cultura protezionista e statalista, sul vecchio modello delle partecipazioni statali e dei ministeri, soprattutto in una regione come il Lazio ove la presenza dell’impiego pubblico e della Chiesa Cattolica sono due tratti distintivi che, pur fra tanti aspetti positivi, rappresentano però un’impalcatura spesso ingessante della società.

Al nostro interno il tema del libero mercato e quello del confronto con la Chiesa vengono vissuti con un certo timore, con molte riserve e dunque è bene affrontarlo con una certa accortezza.

Rispetto al mercato credo che per noi socialisti valga lo slogan di Ugo Intini: “libero mercato si, società di mercato no”. Apertura al mercato dunque, purché questo non diventi un far-west senza regole, dove gli imprenditori più spregiudicati fanno liberamente razzie, magari anche con i soldi dei piccoli risparmiatori o delle banche, che poi é la stessa cosa. Il caso Banca Polare Italiana/Furbetti del “quartierino” credo che qualcosa possa insegnare, ammesso ve ne fosse stato bisogno dopo i casi Cirio e Parmalat.

La liberalizzazione può si essere utile, a condizione però:

  • che vi sia competizione fra più operatori tra i quali poter scegliere liberamente il servizio o prodotto che offrono;
  • che vengano rispettati i livelli minimi di garanzia, in termini di qualità ed affidabilità per gli utenti;
  • che venga colto l’obiettivo di ridurre i costi per l’utente dei servizi erogati. Dire che il contenimento dei costi per la collettività, nell’ambito dei servizi pubblici, può essere ottenuto con la sola introduzione delle liberalizzazioni/privatizzazioni, è dire una cosa non vera. Le privatizzazioni non hanno creato di per se concorrenza: basta guardare quanto è avvenuto con le Poste, con le Ferrovie, con la Telecom, con le stesse banche e assicurazioni che pur essendo molte e sparse su tutto il territorio nazionale, agiscono di fatto come un cartello.

Per ottenere reali benefici è necessario creare concorrenza vera, dare agli utenti più alternative e la possibilità di scegliere liberamente fra più soggetti che offrono lo stesso tipo di servizio o prodotto, potendo privilegiare il migliore, il più affidabile, quello più economico che offre tariffe differenziate o personalizzabili.

Ma voi, ve l’immaginate una concorrenza di questo tipo su via Nazionale o via del Corso a Roma, dove passassero 10 diverse aziende di trasporto pubblico, oppure sulla metropolitana o sulle ferrovie dello stato dove transitassero lo stesso numero di aziende ad erogare il servizio? Ci vorrebbe almeno mezz’ora prima di salire a bordo, per capire il tipo di biglietto che serve, la destinazione, gli orari e così via.

Bisogna inoltre stare attenti ad un assioma che si è affermato in questi ultimi tempi e che rappresenta , se male interpretato, un equivoco se non addirittura una trappola: si dice infatti che “LE LIBERALIZZAZIONI RAPPRESENTANO LA MODERNITA’”.

Se così fosse Adamo Smith, economista del ‘700 e primo teorizzatore del liberismo, dovrebbe essere considerato un ultra modernista anche a distanza di circa tre secoli, come pure l’ex primo ministro inglese, la signora Tatcher, l’ex presidente americano Ronald Reagan e il padre del monetarismo Milton Friedmann a cui ambedue i premier si sono ispirati negli anni ’80.

Per non parlare poi delle liberalizzazioni/privatizzazioni che si sono avute e che ancora sono in corso nei paesi ex comunisti: Unione Sovietica, Cina, paesi dell’est europa, dove si è avuto e si ha un dilagare delle forme più deteriori del libero mercato con le sue degenerazioni peggiori.

In Italia invece abbiamo la bizzarria del disegno di legge “Lanzillotta”. L’argomento forte è: gare subito a partire dal 2008. L’obiettivo è:

  • il drastico abbattimento dei costi dei servizi pubblici (purtroppo però, verrebbe da chiedere, perché solo di alcuni?);
  • inibire la nomina di tutti quegli amministratori di aziende pubbliche che hanno gestito aziende che hanno riportato perdite per tre anni consecutivi;
  • consentire la partecipazione alle gare (solo per la prima volta) anche alle aziende che sino ad oggi hanno avuto i servizi affidati “in house” .

Rispetto a questo ultimo punto viene da chiedersi come si può onestamente pensare che aziende tanto sbrindellate (tale deve evidentemente essere l’idea che hanno di esse la Lanzillotta e i suoi alleati nel Governo, altrimenti non si capisce perché le vogliono cancellare), abituate come sono al protezionismo di stato, al ripianamento delle perdite a “pie di lista” da parte degli enti che le controllano, possano partecipare alle gare in condizioni di parità con i privati.……………. Si sta chiedendo di partecipare ad una gara dei cento metri ad ostacoli a dei soggetti che già camminano con le stampelle!!

Delle due l’una: o sono ingenui oppure non sono in buona fede. Se così fosse, farebbero meglio a dirlo chiaramente ai lavoratori del settore, al fine di evitare altre brutte figure e peggiorare la già non brillate considerazione che gli italiani hanno del governo.

In sintesi potremmo dire come socialisti e riformisti, come eredi ideali e politici dei fratelli Montemartini , Giovanni e Luigi, economista e assessore di questa città il primo e parlamentare il secondo, entrambi socialisti e riformisti che: lo Stato deve esserci dove è indispensabile la sua presenza per la garanzia di interessi generali e individuali, soprattutto dei più deboli, non altrimenti delegabili o esercitabili dal privato- perché magari questi non vi ha interesse o perché il livello degli investimenti è tale da scoraggiarne la presenza.

Lo Stato deve esserci laddove funge da riequilibratore e garantisce la coesione sociale.

Lo Stato non deve esserci laddove le prestazioni possono essere o sono già utilmente ed efficacemente erogate da soggetti privati senza discriminazione o danno per alcun cittadino ma anzi vengono erogate in forme e modi che il pubblico mai potrebbe realizzare.

Nel contempo occorre Evitare di cadere in una “trappola sociale”. Difendere le aziende pubbliche con i loro costi, il loro livello di elevata socialità in difesa e nella promozione dell’occupazione; tendere alla tutela dell’ambiente e ad un elevato standard di sicurezza dei mezzi di trasporto e dei luoghi di lavoro, non deve indurre a trascurare i legittimi diritti dei cittadini che pagano le tasse e che chiedono maggiore rigore nella spesa pubblica. Così come sarebbe profondamente ingiusto e dunque non giustificabile, che cittadini disoccupati o perennemente precari paghino le tutele e talvolta i privilegi di chi è occupato.

Concludendo: il tema della spesa pubblica in generale e di quella legata ai servizi in particolare, mi sembra che presenti dei tratti sociologici comuni alla situazione in cui si è venuto a trovare il paese dopo la caduta del muro di Berlino. Improvvisamente ci si è resi conto che il vecchio sistema sociale e politico non riusciva a stare più in piedi in quanto clientele, zone franche e protettorati -un tempo realizzati e concessi per fronteggiare l’avversario politico di un blocco opposto- erano caduti, non erano più né giustificabili né sopportabili da parte della pubblica opinione e si è dato così corso alle prime privatizzazioni, alle liberalizzazioni, alla cancellazione dei vecchi partiti, pensando che una radicale trasformazione della società e delle sue istituzioni avrebbe portato il paese automaticamente verso la modernità, verso l’efficienza, il rinnovamento, verso una competizione alla pari con altri paesi. Talvolta però la terapia è stata durissima, da cavallo, e il risultato è stato quello di debilitare il corpo vivo del paese piuttosto che curarlo adeguatamente. Si è buttato via il bambino con l’acqua sporca. Non vorremmo che la stessa cosa succedesse con i servizi pubblici per trovarci come le ferrovie privatizzate dalla Tatcher in Inghilterra.

Cosa proponiamo alla Regione e al Governo per il TPL

  1. Esternalizzazione graduale con gara ai privati di una parte del servizio (15/20%) mantenendo gli affidamenti “in house” alle aziende pubbliche. l’esternalizzazione potrà riguardare servizi svolti in periodi pre-festivi e festivi, estivi, a bassa domanda o per tratte considerate marginali;
  2. fissare per le aziende pubbliche un termine di 5 anni per allineare i propri costi (indici della gestione caratteristica) con quelli delle aziende private alle quali viene esternalizzato parte del servizio pena la revoca dell’affidamento “in house”;
  3. promuovere, ove possibile, l’accorpamento fra le aziende pubbliche, oggi ancora troppo piccole rispetto agli altri giganti del trasporto pubblico europeo;
  4. definizione dei bacini d’intesa con le province;
  5. dare alle aziende di trasporto pubblico locale un ruolo strategico nell’ambito della pianificazione della mobilità, degli asseti urbani e del territorio in generale, trasformandoli in soggetti che non siano più solo vettori di passeggeri ma anche messaggeri di un moderno sviluppo delle città e del territorio e protagonisti nella salvaguardia dell’ambiente.
  6. consolidare e rilanciare il patrimonio di competenze professionali all’interno delle aziende evitando di depauperare il patrimonio, sia industriale che di competenze umane, con il contenimento dell’esternalizzazione di quelle lavorazioni ed attività necessarie alle aziende come ad esempio la manutenzione dei mezzi e degli impianti, la vigilanza e le pulizie, i servizi tecnici e amministrativi;
  7. Far maturare e decollare una cultura del senso di responsabilità verso la cosa pubblica;
  8. Creare e promuovere una cultura per la formazione di imprenditori/manager dei servizi pubblici;
  9. Chiedere alla politica di recuperare il proprio ruolo di indirizzo strategico volto alla definizione degli obiettivi generali lasciando alle aziende pubbliche la libertà di organizzarsi in autonomia e rispondendo unicamente ai principi di correttezza, trasparenza, efficienza e meritocrazia;

10.Legare una parte dei compensi dei vertici aziendali al raggiungimento dei risultati richiesti dall’azionista pubblico;

11.Fissare per le aziende dei precisi banchmark di riferimento a cui deve tendere il risultato della gestione in modo tale che sia comparabile omogeneamente con quello delle altre aziende del settore, sia su scala nazionale che europea;

12.Favorire, laddove sia utile, la formazione di strutture cooperative “autenticamente autogestite” alle quali rivolgersi per ottenere solo ed esclusivamente quei servizi necessari ma occasionali o scarsamente programmabili;

13.Avviare senza ulteriori indugi dei piani qualificati di investimento in tecnologie innovative al servizio dell’efficienza aziendale e a tutela della salute pubblica operando attraverso organismi consortili fra vettori e regolatori pubblici (come ad esempio la bigliettazione elettronica, il controllo della flotta, le paline cosiddette intelligenti utili ai viaggiatori per conoscere orari di arrivo dei mezzi pubblici, ecc);

14.Promuovere ed avviare la ricerca di nuovi mercati nell’est Europa e nel bacino del Mediterraneo, esportando know-how, realizzando alleanze, joint venture, programmi comuni di sviluppo e scambio con i soggetti che operano e regolano il settore dei trasporti pubblici dei rispettivi paesi.

Concludendo dunque, da socialisti, riformisti e liberali quali siamo, dobbiamo batterci per il pubblico, ma a condizione che questo sia efficiente e solidale, capace di competere e promuovere grandi speranze di sviluppo, di progresso e di coesione sociale.

Foto d’archivio